La differenza, fra i comunisti e coloro che comunisti non lo sono, non sta nel presentarsi o meno alle elezioni.
Scelta che è “tattica” nella misura in cui tiene conto della contingenza storica e del livello di sviluppo delle forze che si fronteggiano sull’agone della “democrazia” ma, soprattutto, della fase che il capitalismo sta attraversando e del ruolo svolto dalle sue istituzioni.
Strumenti “progressisti” nella fase di crescita e di lotta contro le istituzioni dell’ancien régime.
Arnesi arrugginiti preposti al mantenimento del consenso e alla gestione delle contraddizioni, nella fase di declino e marcescenza della borghesia.
La differenza vera sta nel ruolo che si riconosce al parlamento e alla miriade di strumenti di “partecipazione democratica” attraverso i quali si sviluppa la lotta politica, correttamente e costituzionalmente riconosciuta, fra le classi sociali.
Il parlamento è una articolazione dello stato dei padroni, strumento attraverso il quale si esplica (nella divisione dei poteri e in simbiosi con governo e magistratura) la dittatura della borghesia?
O, invece, è una camera di compensazione fra opposti interessi utilizzabile dalle classi oppresse per imporre le proprie istanze e, al limite, ribaltare la loro condizione di sfruttati?
Per dirla in maniera più chiara.
La via rivoluzionaria è ancora l’unica scelta possibile, necessaria e obbligata?
La distruzione della macchina militare e burocratica dello Stato borghese e di tutte le sue istituzioni è all’ordine del giorno, come condizione necessaria senza la quale non è possibile nemmeno immaginare l’emancipazione del proletariato?
La differenza sta nel fatto che i rivoluzionari costruiscono la loro strategia a prescindere dalle forme che la dittatura borghese assume.
Costruiscono la loro pratica politica a partire dalla struttura, agiscono all’interno della contraddizione capitale-lavoro riconducendo a essa ogni scelta tattica, mentre i riformisti sono succubi della sovrastruttura ideologica e politica della borghesia.
Un rivoluzionario può fare a meno della democrazia e del parlamento borghese.
Il riformista, senza il parlamento, senza la democrazia borghese, è nulla.
È da questo che bisogna partire se si vuole finirla una volta per tutte con la riproposizione di vecchie e fuori luogo polemiche. Vecchie polemiche che si ripropongono ogni volta che si ripresenta la possibilità di usare la scheda elettorale.
E che si riproporranno, a maggior ragione, oggi in cui in discussione è la quantità di “rappresentanti del popolo” che devono amministrarci.
E, permettetemi la malignità, la speranza di qualche misconosciuto capopopolo di poter accedere a quell’agognato scranno.
Chiariamo subito una cosa. Non si tratta di “polemiche fra comunisti”.
Il parlamento della repubblica italiana non è la Duma e nemmeno l’Assemblea costituente sciolta dai bolscevichi con le baionette. E non ci stanno Lenin e Bordiga a polemizzare.
E’ solo una sentina di ladruncoli che cercano di grattare il fondo del barile prima che le “avverse sorti” li rigettino nel limbo da cui sono emersi. Rappresentanti delle varie fazioni concorrenti di una borghesia ormai incapace di svolgere il benché minimo ruolo progressivo. Ed essi stessi incapaci di assolvere il ruolo di specchietto per le allodole a cui sono stati preposti.
Ma il partito delle allodole non demorde. Cresciuto dentro gli steccati della democrazia borghese, e per giunta in una fase in cui quella democrazia rivelava tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, non può fare a meno di impugnare la matita e marcare il territorio col suo voto.
Torniamo alla questione di sempre. Fuori delle istituzioni rappresentative inventate dai Costituenti, sono nulla, non hanno visibilità, non riescono nemmeno a immaginare un modo “diverso” di fare politica.
Disuniti perché la torta elettorale non è in grado di soddisfare gli appetiti di ognuno di loro, in gara perenne nel tentativo di primeggiare sull’altro. In concorrenza da anni ormai su chi deve ereditare i frutti marciti della lunga e drammatica (per il proletariato) storia del comunismo italiano (sezione nazionale di quello che è stato il comunismo di scuola stalinista nel resto del mondo).
Sono, comunque, uniti su un programma. Un programma frutto del compromesso fra le classi e le loro rappresentanze politiche scritto più di 70 anni fa.
Un programma che ne ha segnato la storia e ne segnerà i destini.
Il programma della Costituzione della Repubblica italiana. L’illusoria utopia piccolo borghese di una democrazia politica avulsa dai rapporti economici, di una pacifica ascesa al potere delle classi dominate, di un Eden in cui il conflitto sociale fosse surrogato dalle tribune politiche e lo sfruttamento attenuato dall’illuminato riformismo di uno Stato benefico e neutrale.
Il programma di chi sogna il capitalismo senza le nefaste conseguente che si porta dietro.
Ma è un’altra la questione che vorrei porvi.
Perché il programma che si riassume nell’asserto che la “sovranità appartiene al popolo” non è solo un tentativo maldestro di cancellare le classi e “unire” gli interessi contrapposti dei padroni e degli sfruttati per rinviare sine die lo scontro di classe.
Non è solo il programma della “coesistenza pacifica” fra chi è cittadino col conto in banca e chi porta le pezze al culo, non è solo la foglia di fico “giuridica” che nasconde la realtà della dittatura della parte più ricca del “popolo”.
È un programma vecchio. Obsoleto. Fuori dalla realtà dello scontro in atto nel paese. Incapace ormai di suscitare emozioni e produrre consensi e nemmeno utile per farvi ottenere un misero strapuntino.
Il programma di una lontana sconfitta, di un lutto che non siete capaci di elaborare.
Non scomodiamo Marx per aprire gli occhi alle allodole.
Basta Berlinguer. Vi do una notizia. Il più convincente critico dell’illusione che si potesse governare e trasformare il paese attraverso il 51% ottenuto nelle elezioni fu proprio lui. Da dove pensate sia venuto fuori il compromesso storico e l’alleanza con la dc?
Fu lui a comunicare a un partito ormai suonato, dopo l’annunciata (dai comunisti) fine del governo Allende, il contrordine rispetto a quello che il riformismo e la socialdemocrazia avevano predicato da decenni.
Non si governa nemmeno col 51%. Non c’è nessuna via parlamentare al socialismo.
La polarizzazione porta alla guerra civile alla quale non siamo ne adatti, ne preparati ideologicamente.
La borghesia se ne fotte delle maggioranze parlamentari. Tanto vale arrendersi subito e accettare un “vantaggioso” piano di coesistenza pacifica.
Non si cacciano i padroni col voto. Al massimo si possono ottenere sconti sul prezzo che dobbiamo pagare. Un compromesso accettabile.
E perfino Togliatti, l’ideatore della via nazionale al socialismo, si giustificava coi suoi critici, che lo accusavano di essere ritornato alla socialdemocrazia, affermando che quella strada la si poteva percorrere perché, nelle retrovie, c’era un “campo socialista” capace di garantire che le borghesie occidentali sarebbero state ai patti e non avrebbero barato al gioco.
Fate un po voi.
Trastullatevi con referendum e elezioni. In fondo non sono nient’altro che un modo per accumulare like quando non esistevano i social. Qualcosa la vincerete comunque.
A me francamente interessa poco che il parlamento sia fatto da molti o da pochi.
Mi interessa che funzioni il peggio possibile. Che gli impiegati delle lobby che si dividono quei seggi litighino e non si mettano d’accordo. Che la borghesia non governi o governi male. Perché quando governa bene lo fa per i suoi interessi non per quelli della classe avversa.
E non vi azzardate a riproporre gli “anatemi del passato” contro i “settari e gli estremisti” ammalati di “infantilismo”. Poteva farlo il Pci con la sua forza e la sua organizzazione. E non sempre ci riusciva.
In bocca a voi quelle accuse suonano ridicole e patetiche.