Una magistrale applicazione del materialismo storico
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte fu scritto da Karl Marx nei primi mesi del 1852, nelle settimane successive al colpo di Stato realizzato il 2 dicembre 1851 in Francia da Carlo Luigi Napoleone Bonaparte. L’opera fu pubblicata per la prima volta nel maggio 1852, e alcuni anni dopo, nel 1869, Marx la ripubblicò in seconda edizione assieme a una sua prefazione. Nel 1885 venne quindi pubblicata una terza edizione, accompagnata da una premessa di Friedrich Engels.
Come scrive Marx nella prefazione alla seconda edizione, l’opera nacque da una serie di articoli che egli aveva inviato al suo amico Joseph Weydemeyer. Quest’ultimo, infatti, gli aveva chiesto di scrivere la storia del colpo di Stato del “piccolo” Napoleone per la rivista politica Die revolution, edita a New York dallo stesso Weydemeyer.
L’importanza dell’opera: parola ad Engels…
L’importanza de Il 18 brumaio è ampiamente riconosciuta da Friedrich Engels il quale, nella premessa alla terza edizione, scrisse che a trentatré anni dalla sua prima apparizione l’opera non aveva perduto nulla del suo valore. Un’affermazione che ci sentiamo di ribadire tutt’oggi, a distanza di oltre centosessant’anni dalla nascita di quella che Engels definisce “un’opera geniale”, capace di far luce su un evento “che sorprese tutto il mondo politico come un fulmine a ciel sereno, maledetto dagli uni con alte strida d’indignazione morale, accolto dagli altri come scampo dalla rivoluzione e castigo per i suoi traviamenti, per tutti, però, oggetto soltanto di meraviglia, e non compreso da nessuno”.
Se Marx riuscì a ricostruire le ragioni di un evento per i più inspiegabile, ciò fu dovuto, sostiene Engels, all’applicazione del materialismo storico, metodo di cui a Marx va attribuita la paternità: “Fu proprio Marx ad aver scoperto per primo la grande legge dell’evoluzione storica, la legge secondo la quale tutte le lotte della storia, si svolgano sul terreno politico, religioso, filosofico o su un altro terreno ideologico, in realtà non sono altro che l’espressione più o meno chiara di lotte fra classi sociali; secondo la quale l’esistenza, e quindi anche le collisioni, di queste classi sono a loro volta condizionate dal grado di sviluppo della loro situazione economica, dal modo della loro produzione e dal modo di scambio che ne deriva”.1
…e a Lenin
Anche Lenin riconosce pienamente l’importanza dell’opera di Marx qui recensita, in particolare nel secondo capitolo di Stato e rivoluzione. Sottolinea infatti come Il 18 brumaio segni un passo avanti rispetto al Manifesto del partito comunista dal punto di vista dell’elaborazione marxiana sullo Stato e sulla dittatura del proletariato. In particolare, fa notare come nel saggio del 1852 Marx scopra la tendenza dello Stato borghese a rafforzare e a estendere nel corso dei secoli il proprio apparato burocratico e militare: “«Questo potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale […] questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia assoluta, al cadere del sistema feudale, che esso aiutò a far tramontare». La prima rivoluzione francese sviluppò la centralizzazione, «e in pari tempo dovette sviluppare l’ampiezza, gli attributi e gli strumenti del potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello Stato. La monarchia legittima e la monarchia di Luglio non vi aggiungono nulla, eccetto una più grande divisione del lavoro… La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla»”. Lenin cita questi passi da Il 18 brumaio di Marx proprio per rimarcarne l’avanzamento rispetto al Manifesto del 1848, nel quale “il problema dello Stato era posto ancora in modo troppo astratto”. Nel saggio qui analizzato, invece, Lenin ritiene che la questione sia avanzata in maniera molto chiara: “tutte le rivoluzioni precedenti non fecero che perfezionare la macchina dello Stato, mentre bisogna spezzarla, demolirla”. 2
Il Lenin di Stato e rivoluzione, impegnato nell’importantissimo compito di liberare il marxismo dalla mistificazione dei revisionisti, non può che percepire questo punto come essenziale: mentre i riformisti, di allora come di oggi, vogliono dare a intendere che il problema dei comunisti sia quello di entrare nelle istituzioni borghesi per impadronirsi della macchina statale, riformarla e migliorarla, Lenin ci ricorda, facendo riferimento a Marx, che al contrario, quella macchina statale è stata costruita ad hoc dalla borghesia nel corso del tempo per gestire i suoi interessi di classe. Pertanto, i comunisti non possono usare quella sovrastruttura politica, ma devono piuttosto distruggerla e sostituire a essa una macchina statale proletaria che permetta alla classe fino a ieri oppressa, una volta divenuta dominante, di reprimere l’inevitabile resistenza della borghesia espropriata e di riorganizzare l’economia su basi socialiste. Si tratta della dittatura del proletariato, espressione che Marx ed Engels cominceranno a usare in seguito alla Comune di Parigi, ma la cui idea avevano già avanzato nel Manifesto. L’unica dittatura che tende ad autoestinguersi, in direzione della società senza classi e, dunque, senza Stato.
Tragedia e farsa
Come si evince già dal titolo dell’opera, Luigi Bonaparte è considerato da Marx una caricatura dello zio, il più famoso Napoleone Bonaparte, l’autore del colpo di Stato del 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799 secondo il calendario gregoriano) che pose fine all’esperienza del Direttorio e alla stessa rivoluzione francese, aprendo la strada al consolato e all’instaurazione dell’Impero (1804). Nel famoso incipit del saggio oggetto di questa recensione, Marx riflette su un’idea espressa dal filosofo tedesco Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Caussidiere invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-95, il nipote invece dello zio”. Gli uomini tendono a evocare “gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio”, e Luigi Bonaparte, che ha costruito la propria figura sui fasti del celebre parente, ne è una chiara dimostrazione.
Nella lettura marxiana, il colpo di Stato del dicembre 1851 è il trucco del baro con cui vengono fatte sparire definitivamente la rivoluzione del febbraio 1848 e le concessioni liberali che essa aveva portato con sé. È il sipario che cala sulla sceneggiata borghese, e sembra che per i proletari la società sia “tornata più indietro del suo punto di partenza”, costringendoli a tornare “su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo”. 3
Luglio 1830 – febbraio 1848: dalla monarchia borghese alla repubblica borghese
Per Marx, la rivoluzione del febbraio 1848, che condusse all’abbattimento della Monarchia di Luglio e alla proclamazione della repubblica,4 fu realizzata con l’obiettivo di far partecipare alla spartizione del potere quei settori della borghesia che sino ad allora ne erano rimasti esclusi: “il dominio esclusivo dell’aristocrazia finanziaria doveva essere rovesciato” per permettere anche alle altre fazioni borghesi di partecipare al banchetto. Il proletariato ebbe parte attiva nel rovesciamento di Luigi Filippo d’Orleans, partecipando “con le armi in pugno” alle mobilitazioni, ma non ne trasse alcun beneficio in quanto il potere rimase saldamente nelle mani della classe borghese.
La borghesia si era servita delle masse proletarie per conseguire i suoi interessi di classe, e queste ultime avranno modo di accorgersene molto presto. Difatti, l’Assemblea costituente eletta a suffragio universale maschile e riunitasi per la prima volta il 4 maggio del 1848, si palesò per ciò che realmente era, attraverso il varo di misure reazionarie e antipopolari.
La rivoluzione di febbraio, dunque, non fa altro che segnare il passaggio dalla monarchia borghese alla repubblica borghese, evidenza di cui il proletariato acquisisce ben presto cognizione, tanto da cercare di sciogliere l’Assemblea costituente (15 maggio) pochi giorni dopo il suo insediamento e da arrivare il mese dopo (22 giugno) all’insurrezione contro la borghesia, che Marx definisce “l’avvenimento più grandioso nella storia delle guerre civili europee”, cioè il primo scontro frontale fra le due classi sociali nemiche in cui è divisa la società moderna.
L’insurrezione del giugno 1848
Lo scontro fu combattuto fra forze impari: la repubblica borghese aveva dalla sua parte “l’aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale, il ceto medio, i piccolo borghesi, l’esercito, la canaglia organizzata in guardia mobile, gli intellettuali, i preti e la popolazione rurale. Il proletariato non aveva al suo fianco altro che se stesso” 5. In queste condizioni, nonostante si fosse battuto eroicamente, il proletariato fu sconfitto dalla borghesia, e il prezzo pagato fu salatissimo, con oltre 3000 insorti massacrati e 15000 deportati senza processo.
Per la classe proletaria fu una sconfitta pesantissima. Tuttavia, da allora, l’utopia della conciliazione delle classi nemiche iniziò a essere riconosciuta come tale fra settori crescenti delle masse oppresse, e cominciava a farsi largo l’idea secondo cui in Europa si ponevano ben altri problemi rispetto a quello di “repubblica o monarchia”. Iniziò cioè a essere percepita la necessità di portare avanti una lotta finalizzata all’abbattimento della dittatura di classe della borghesia per affermare quella della classe operaia.
La partecipazione di due ministri “socialisti”, Louis Blanc e Albert, al “governo provvisorio”, un contentino dato dalla borghesia ai proletari per tenerli buoni, si era rivelata per questi ultimi un disastro, dato che la presenza di tali “rappresentanti” nelle istituzioni borghesi aveva contribuito a disarmare le masse proletarie e a illuderle rispetto alle vie istituzionali, mandandole incontro al massacro di giugno.
La parabola discendente della repubblica borghese
La frazione repubblicana borghese dominò la scena sino all’elezione a presidente della repubblica di Luigi Bonaparte, avvenuta il 10 dicembre del 1848, elezione supportata dall’esercito, dalla grande borghesia, dalle masse contadine, da settori proletari e piccolo borghesi. A partire da allora, la borghesia repubblicana, pur avendo ancora il controllo dell’Assemblea costituente, dovette cedere il potere esecutivo all’area monarchica: ebbe inizio allora un duro scontro fra le due fazioni borghesi.
Nel periodo in cui tenne le redini della Francia, la borghesia repubblicana elaborò una Costituzione che introduceva il suffragio universale maschile. Il punto debole di questa Costituzione, secondo Marx, stava nel dualismo che di fatto creava fra l’Assemblea nazionale, dotata di pieni poteri in ambito legislativo, e il presidente, che concentrava nelle sue mani il potere esecutivo e controllava le forze armate. Un conflitto che si inasprirà nel corso dei mesi e che alla fine si risolverà a favore del potere esecutivo, cioè a favore del presidente, il cui unico modo per sbarazzarsi della controparte consisteva nel farlo con la forza, dunque violando la Costituzione, dato che la stessa sanciva la non rieleggibilità del presidente uscente.
Il 28 maggio 1849 all’Assemblea costituente subentrò una Camera legislativa caratterizzata dalla maggioranza di forze “moderate”, cioè riconducibili alla borghesia monarchica nelle sue diverse correnti, coalizzate nel “partito dell’ordine”. La borghesia monarchica, dunque, che nella fase immediatamente precedente aveva controllato solo il potere esecutivo, adesso metteva le mani anche su quello legislativo. Eppure, nonostante il terreno guadagnato, i monarchici, uniti sulla base dell’odio comune contro la “repubblica”, conoscevano al proprio interno una forte conflittualità. In particolare, cresceva l’ostilità di orleanisti e legittimisti contro la fazione bonapartista e si inaspriva il contrasto fra Bonaparte e l’Assemblea.
La Montagna: l’impotenza del riformismo
La Montagna, partito “democratico-socialista” a base prevalentemente piccolo borghese con componente operaia, che disponeva di 180 seggi su 705 nell’Assemblea nazionale, non seppe approfittare delle divisioni interne al campo monarchico e si limitò alla difesa della repubblica e agli appelli alla “legalità”. Un’azione politica che si muoveva insomma all’interno delle logiche di sistema, e che aveva l’utopico obiettivo – caratteristico dei riformisti di ogni epoca – di umanizzare la società capitalistica.
Bonaparte, intanto, aveva deciso l’intervento militare francese a fianco delle potenze reazionarie europee per soffocare la Repubblica romana, cosicché Ledru-Rollin, leader della Montagna, presentò un atto di accusa contro Bonaparte e i suoi ministri, accusati di violare la Costituzione per via del loro impegno militare contro la libertà di un altro popolo.
L’atto di accusa fu respinto, allora la Montagna provò a mobilitare la gente nelle piazze facendo “appello alle armi” in difesa della Costituzione: un proclama ambizioso oltre le sue possibilità, che si tradusse in un assist alla borghesia. L’appello alla mobilitazione lanciato dalla Montagna non fu raccolto né dall’esercito né dalle masse popolari, e si risolse il 13 giugno in una pacifica passerella per strada. Bonaparte passò all’incasso, approfittando della chance per reprimere duramente i capi della Montagna e il loro seguito.
Ma i montagnardi non fecero un bilancio della sconfitta, non ne trassero alcun insegnamento, palesando un atteggiamento inguaribilmente istituzionalista e legalitario. Un approccio che ritroviamo nel riformista di ogni tempo e luogo: nonostante le pesanti sconfitte, infatti, come scriveva Marx, egli resta nelle proprie convinzioni, non crede “che egli stesso e il suo partito dovranno cambiare il vecchio modo di vedere, ma, al contrario, che gli avvenimenti, maturando, gli dovranno venire incontro”! 6
Il colpo di Stato
I borghesi andavano convincendosi che “per poter continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione”, la loro stessa classe sociale andava “politicamente annullata”, doveva cioè abbandonare il potere politico e delegarlo a un uomo forte.
Allo stesso tempo Luigi Napoleone alimentava il sogno del colpo di Stato, dopo che i due suoi precedenti tentativi, nel 1836 e nel 1840, erano miseramente falliti. Assunse un profilo sempre più populista, per accattivarsi le simpatie delle masse, rilanciava con le promesse e scagliava dardi avvelenati contro l’Assemblea nazionale, salvo poi fare passi indietro quando si sentiva minacciato: così fece, ad esempio, quando alle elezioni suppletive del 10 marzo 1850, che ebbero luogo per sostituire i deputati incarcerati o andati in esilio dopo il 13 giugno, i montagnardi e gli insorti di giugno fecero registrare un grosso successo, anche fra le file dell’esercito parigino. A questo punto, l’Assemblea nazionale accentuò l’attacco a ciò che restava della repubblica, procedendo all’abolizione del suffragio universale. Era il 31 maggio 1850: “Il 10 marzo il suffragio universale si era dichiarato senz’altro avverso al dominio della borghesia, e la borghesia rispose sopprimendolo. La legge del 31 maggio quindi fu una necessaria conseguenza della lotta di classe”. 7
Superato il timore di nuove fiammate rivoluzionarie, una volta soppresso il suffragio universale, continuò lo scontro fra l’Assemblea nazionale e Bonaparte, che si avviava verso la resa dei conti. Luigi Napoleone riuscì a guadagnarsi il favore dell’aristocrazia finanziaria e della borghesia industriale, che iniziarono a indicare pubblicamente in lui il tutore dell’ordine e a fare pressioni in tal senso sui loro rappresentanti nell’Assemblea nazionale.
La crisi di sovrapproduzione del 1851 contribuì a infiammare l’atmosfera e “nei mesi di settembre e ottobre le voci di un colpo di Stato si fecero sempre più frequenti”. Finché – siamo al 2 dicembre 1851 – il “piccolo” Bonaparte organizzò l’irruzione “nelle case dei più pericolosi capi-partito”, “fece occupare le piazze principali di Parigi e l’edificio del parlamento”, arrestando i deputati che provavano vanamente a opporsi. “Così finivano il partito dell’ordine, l’Assemblea legislativa e la Rivoluzione di febbraio” 8.
Le insanabili contraddizioni del bonapartismo
Bonaparte “sente che la sua missione consiste nell’assicurare ‘l’ordine borghese’ ”, e nello stesso tempo “si considera rappresentante dei contadini e del popolo in generale contro la borghesia […] vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore di tutte le classi. Ma non può dar nulla a una di esse senza prenderlo all’altra”. Le sue incertezze, il suo procedere a tentoni, contrastano fortemente con lo stile imperativo, modellato su quello dello zio, mentre la corruzione dilaga, e “ogni posto nell’esercito e nell’apparato governativo diventa strumento di una compera”.
Dopo il colpo di Stato, Bonaparte pretese l’investitura popolare: chiamò i francesi a esprimere, con un plebiscito, la loro approvazione o meno al colpo di Stato, e la votazione fece registrare una schiacciante vittoria del sì. Varò una Costituzione che ampliava i suoi poteri, smantellò la Guardia nazionale, attuò una serie di misure reazionarie fra cui una rigida censura sulla stampa. Fino a che il 2 dicembre 1852 non dichiarò conclusa la Seconda Repubblica, assumendo il titolo d’imperatore col nome di Napoleone III, per rimarcare la continuità con lo zio e col cugino Napoleone Francesco Giuseppe Carlo (figlio di Napoleone I e Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, morto giovanissimo nel 1832), conosciuto dai bonapartisti come Napoleone II e da loro considerato di fatto imperatore dopo i Cento giorni del 1815. Nasceva così il Secondo Impero francese.
Eppure, come fa notare Marx, le masse contadine – che avevano sostenuto Bonaparte – non potevano aspettarsi nulla di buono da un governo borghese. L’interesse dei contadini, infatti, “è in contrasto con gli interessi della borghesia, col capitale. Essi trovano quindi il loro naturale alleato e dirigente nel proletariato urbano, il cui compito è il rovesciamento dell’ordine borghese” 9.
Nonostante l’involuzione reazionaria, le energie rivoluzionarie non erano spente, e presto se ne sarebbe avuta la riprova. La rivoluzione “fino al 2 dicembre 1851 non aveva condotto a termine che la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo l’altra metà. Prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l’unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: «Ben scavato vecchia talpa!»” 10.
Note
- ⇧K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, edizioni Lotta comunista, Premessa di Engels alla terza edizione, pp. 23-24.
- ⇧Lenin, Stato e rivoluzione, edizioni Lotta comunista, II, pp. 45-46.
- ⇧K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, op. cit., I, pp. 25-30.
- ⇧Luigi Filippo d’Orleans prese il potere in Francia in seguito alla rivoluzione del luglio 1830, per mezzo della quale venne rovesciato Carlo X, ultimo monarca “legittimo” (cioè della famiglia dei Borbone). Il regno di Luigi Filippo, durato fino alla rivoluzione di febbraio del 1848, è passato alla storia come “Monarchia di Luglio” proprio in considerazione del mese in cui questi salì al trono.
Sulla rivoluzione del febbraio 1848, che portò al rovesciamento della monarchia di Luglio e all’instaurazione della Seconda repubblica, e sui fatti che caratterizzarono quest’ultima fino al suo epilogo, invitiamo a leggere la recensione de Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. - ⇧K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, op. cit., I, pp. 32-34.
- ⇧Ivi, III, p. 66.
- ⇧Ivi, IV, pp. 79-84.
- ⇧Ivi, VI, pp. 117-130.
- ⇧Ivi, VII, pp. 140-147.
- ⇧Ivi, VII, pp. 134-135.
Hi from greece
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