Pubblichiamo, col suo consenso e ringraziandolo, un contributo del compagno Sebastiano Isaia.
di Sebastiano Isaia*
Che mistero pervade una sorgente!
Tanto remota è la vita dell’acqua,
simile a una compagna ultraterrena
racchiusa in una brocca di cui
nessuno ha mai veduto il fondo,
solo il coperchio di vetro – come
se si guardasse a volontà nel volto
di un abisso!
Confesso che fino all’altro ieri non avevo mai sentito parlare del lago Bajkal, e la cosa mi appare tanto più imbarazzante alla luce del correttore automatico che controlla il file che sto digitando: il suo algoritmo conosce quel nome! Io invece quell’esotico nome l’ho scoperto appunto da pochissimo, del tutto casualmente, leggendo un interessante libro scritto nel 1966 dall’americano Harrison E. Salisbury (1908-1993), allora «il più autorevole degli inviati e corrispondenti del New York Times». Provo a ridimensionare la grave pecca balbettando, con una lieve modifica, il celebre motto socratico: quantomeno so di non sapere!
Il libro si intitola L’orbita della Cina, e fu pubblicato da Bompiani nel 1967. Era il periodo in cui nel mondo non si parlavo d’altro che dell’escalation nella guerra d’aggressione americana contro il Vietnam e della crisi di potere che in Cina travagliava il Partito-Stato cosiddetto comunista, diviso tra maoisti e “revisionisti”, e che proprio allora stava uscendo dalle profondità delle “dialettica” interna per dilagare come un fiume in piena sotto la grottesca e violenta forma della “Rivoluzione Culturale Proletaria”. Nel ’66 Salisbury compie un lunghissimo periplo che da Hong Kong lo porta in Siberia, dopo aver visitato la Cambogia, la Tailandia, il Laos, la Birmania, la Mongolia esterna, il Sikkim, l’India, il Giappone. Ne venne fuori il punto di vista dell’americano liberal “obiettivo” e “amante della pace” su quanto avveniva nella vivacissima Asia degli anni Sessanta, polarizzata intorno agli interessi delle Potenze che si confrontavano (non solo diplomaticamente ed economicamente) in quel quadrante: Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e India. Quel punto di vista, che rivelava al mondo la pessima coscienza dell’imperialismo americano, probabilmente impedì a Salisbury di portare a casa l’ambitissimo premio Pulitzer per l’anno 1967, dopo che nei suoi confronti il governo degli Stati Uniti (Presidenza Johnson) e la destra repubblicana imbastirono una rozza polemica intesa a far passare il giornalista del New York Times come una vittima della propaganda pacifista orchestrata da Ho Chi Minh1. Il Presidente americano nel ’66 aveva negato il bombardamento della popolazione civile nordvietnamita da parte dell’aviazione militare statunitense: «I nostri aerei colpiscono solo l’acciaio e il cemento armato». Salisbury si limitò a descrivere quello che aveva visto con i suoi occhi durante due settimane di permanenza in Nord Vietnam: le bombe Made in USA non colpivano solo obiettivi militari, ma anche «obiettivi di nessun rilievo bellico: alcune aree residenziali di Hanoi, quartieri di negozi e di piccole botteghe, scuole. Se le bombe non sono state lanciate di proposito, l’effetto è identico a quello di un attacco intenzionale». Il vecchio Eisenhower se ne uscì con una battuta degna della sua grandissima esperienza e del suo realismo imperialista, il quale ieri come oggi, e a differenza del cosiddetto idealismo politico avvezzo a piangere solo sugli effetti, non si sforza nemmeno di addolcire l’amara pillola: «La guerra è guerra, e civili ce ne sono dappertutto». Come dargli torto! Come sempre, per evitare antipatici fraintendimenti occorre ricordare (soprattutto ai buoni di spirito) che in primo luogo cinica è la realtà (capitalistica); a mio avviso solo alla luce di questa solare verità ha un senso criticare il cinismo di chi a quella realtà dà una voce e un corpo. Ma qui si divaga! Veniamo dunque alla mia tardiva scoperta – meglio tardi…
Salisbury lasciò la capitale della Mongolia esterna Ulan Bator nell’estate del 1966, per raggiungere Irkutsk, nella Siberia meridionale, porta d’accesso al lago Bajkal, e dove fino a qualche anno prima «c’erano agevolazioni speciali per i funzionari e i turisti cinesi», mentre adesso di cinesi se ne vedevano pochissimi, segno che «la tensione tra Mosca e Pechino si sentiva anche lì». Ma, continuava il nostro corrispondente, «a Irkutsk erano assai più preoccupati per un problema che li riguardava più da vicino: l’inquinamento del lago Bajkal. Questo lago ha circa venti milioni di anni. Era un tempo una zona vulcanica ed è ancora oggi soggetta a terremoti. È sostanzialmente un’enorme catena di montagne delle quali emergono solo le punte, che nelle loro valli racchiudono quantità impressionanti di acqua dolce. È lungo circa 650 chilometri e largo un massimo di cento. La profondità massima è di 1741 metri. L’ecologia del Bajkal è particolarissima. È il più grande ammasso d’acqua dolce che esista al mondo, ed è un’acqua di purezza incredibile, ciò che esiste in natura di più simile all’acqua distillata». Salisbury ci parla insomma di un’assoluta meraviglia della natura. Ma ecco la magagna che la minaccia: «Tutto questo è ora minacciato dall’avidità del trust sovietico della carta. Sulla sponda meridionale del lago, nelle vicinanze di una zona fittamente alberata, il trust sovietico della carta sta costruendo una delle più grandi fabbriche di polpa di legno del mondo. Si prevede di completarla nel 1966 o all’inizio del 1967, e scaricherà nel Bajkal miliardi di litri di rifiuti solforosi. “Adesso capisce perché la fabbrica di polpa di legno ci preoccupa tanto”, mi disse un giovane scienziato dell’Istituto limnologico. “Al trust della carta interessa produrre e ricavare profitti. Nessuno finora sembra voler impedire questo delitto”». Maledetto capitalismo! Capite che la mia coscienza ecologica radicalmente anticapitalista si è subito alquanto irritata e allarmata, tanto più che mi è balenato alla mente il tragico destino toccato in sorte al lago d’Aral, il grande lago salato di origine oceanica, situato alla frontiera tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, Paesi che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica, e che oggi è ridotto praticamente a uno sputo2.
«Che fine avrà fatto il lago Bajkal?», mi sono chiesto sinceramente preoccupato. Purtroppo la mia preoccupazione era fondata: «Il lago più profondo della Terra è in crisi. La più grave crisi che abbia mai sopportato. Le cause sono, secondo un’inchiesta dell’Agence France Press, l’eccessiva antropizzazione delle sue coste, il turismo e le attività economiche che si sono create negli anni, aumentando l’inquinamento» (Rinnovabili.it). Si scrive antropizzazione ma si legge capitalismo, oggi come negli anni Sessanta, quando il trust sovietico della carta pensò bene di costruire una cartiera sulla sponda meridionale del Bajkal: è l’odiosa legge del profitto, Greta Thunberg, e tu non puoi farci niente! A proposito: quella cartiera ha chiuso i battenti nel 2013. Si è forse trattato di una tardiva eppur apprezzabile presa di coscienza ecologista da parte di capitalisti e governanti? No: si è trattato di una bancarotta.
Il lago contiene ancora circa il 20% delle riserve d’acqua dolce del pianeta, e può ancora vantare una bellezza che toglie il fiato, un fascino che giustifica ancora il suo vecchio nome (Dalai-Nor, Mare Sacro) e una biodiversità forse senza pari (il suo ecosistema ospita più di 3.600 specie vegetali e animali, e ogni anno si scoprono nuove specie endemiche); il lago Bajkal è insomma ancora la «perla della Siberia». Ma la morte delle sue rinomate spugne, rimpiazzate dalle alghe (si tratta della spirogira, un’alga considerata indicatore di contaminazione fecale), e la drastica riduzione della popolazione di omul, un salmone presente solo nel Bajkal (e la cui pesca ora è vietata, visto che la biomassa totale dell’omul si è più che dimezzata rispetto a 15 anni fa), sono solo il sintomo più evidente di una crisi ecologica che con il tempo non può che aggravarsi, e già oggi lo stesso governo russo parla di una possibile catastrofe ecologica in tempi brevi. «Le acque del Bajkal appartengono all’intero pianeta», disse qualche anno fa il virile Vladimir Putin lasciandosi «immortalare a torso nudo mentre catturava un pesce di mezzo metro» (Corriere della Sera). Il problema, caro Vladimir, è che il pianeta è saldamente nelle mani del Moloch capitalistico, il quale vede nelle acque del Bajkal, e in tutto quello che vi vive e vi prospera da millenni, non più che fresco cibo da ingurgitare per placare la sua insaziabile fame di profitti: «Nulla di personale, amici, è nella mia natura mercificare tutto e tutti». Il mostro ci invita a considerarlo come una creatura che ha a che fare con la mera oggettività delle cose, non con la cattiva volontà soggettiva, e personalmente concordo con questo approccio.
«Certo è», scrive Marina Forti, «che il turismo sta già trasformando il paesaggio umano. Kuzhir, al centro di Olhon, dove approdano i traghetti dalla terraferma (d’estate) e l’autostrada di ghiaccio (d’inverno), era fino a una decina d’anni fa uno sperduto villaggio di poche case di legno, con l’unico ufficio postale dell’isola, la scuola elementare e un paio di negozi. Strade sterrate, gelido d’inverno e polveroso d’estate. Ora il villaggio sembra in preda a una frenesia di capitalismo selvaggio» (Internazionale). No, non si tratta di «capitalismo selvaggio»; piuttosto mi sembra più corretto dire che è il capitalismo in quanto tale ad essere selvaggio. Ma questa è come sempre una mia personalissima opinione. Certo è che chi parla di «capitalismo selvaggio» il più delle volte perora l’escrementizia causa di un “capitalismo dal volto umano”, magari chiamando la stessa Cosa con un altro nome.
«Mikhail Shapov, governatore di Irkutsk, a 70 chilometri dal lago, ha chiarito che si pensa di limitare l’accesso in alcune zone più critiche, ma in altre aree sarà aumentata l’offerta turistica. “Non c’è un ordine di importanza delle minacce al lago”, spiega Mikhail Kreindlin, di Greenpeace Russia. “È un insieme di turismo incontrollato, hotel senza impianti di depurazione, inquinamento dalle città vicine, industrie senza impianti di trattamento delle acque di scarico, navigazione senza regole, disboscamento e incendi delle foreste» (Il Corriere della Sera). Il problema ha una natura “sistemica”, come piace dire agli analisti di problemi strategici.
Inutile dire che il capitale cinese è molto attivo anche dalle parti del lago Bajkal, al punto che la popolazione locale parla apertamente di «occupazione straniera», e negli ultimi anni diverse sono state le manifestazioni di protesta contro l’apertura di Hotel e di aziende controllate dagli investitori cinesi. Scrive Anna Lotti: «La presenza cinese nella regione è esplosa dopo il crollo del rublo nel 2014 e il governo russo ha allentato le restrizioni sui visti turistici. Con la crescita del turismo e degli affari, è cresciuta anche la diffidenza locale verso i cinesi considerati come delle cavallette aliene, la cui presenza depaupera solo il territorio. Negli ultimi dieci anni gli investimenti cinesi in Russia sono aumentati di quasi nove volte, raggiungendo i 13,8 miliardi di dollari. Due terzi di tale importo sono stati destinati alle risorse naturali russe, coinvolgendo i settori minerario, forestale, della pesca e agricolo. Sul terreno, però, invece di favorire relazioni amichevoli, gli investimenti cinesi hanno alimentato risentimento e tensioni, soprattutto in Siberia e nell’Estremo oriente russo. L’attività di disboscamento in espansione ha suscitato nell’opinione pubblica il timore che i cinesi stiano distruggendo le antiche foreste della Russia, il più grande fornitore cinese di legname. Centinaia di migliaia di ettari di terreni incolti che sono stati affittati a società cinesi per l’agricoltura, hanno dato luogo a campagne mediatiche “contro l’annessione di Pechino”. Gli investitori cinesi inoltre stanno comprando gli hotel sulle rive del lago Baikal. Un progetto finanziato dalla Cina per imbottigliare l’acqua del lago Baikal in Russia ha causato un contraccolpo in Siberia, dove stanno montando le proteste per quello che è considerato come un esproprio fatto dai cinesi. Gli ecologisti e le autorità locali avevano già parlato in precedenza dell’imbottigliamento dell’acqua del lago più grande del mondo come un modo “verde” per sfruttare le risorse naturali della Siberia» (www.agcnews).
L’ho già detto: per il Capitale tutta quell’acqua, tutta quella biodiversità e tutta quella abbacinante bellezza rappresentano un imperdonabile spreco se non vengono trasformate in fonti di profitti e di successo economico. Senza parlare, nel caso specifico, degli interessi di natura geopolitica che da sempre dividono la Russia dalla Cina, la quale già negli anni Sessanta del secolo scorso si era liberata dal senso di inferiorità che nutriva nei confronti dell’imperialismo russo e rivendicava ciò che riteneva le appartenesse di diritto. Scriveva Salisbury: «Lungo l’Amur mi accorsi che i cinesi venivano presi sul serio. Nessuno pensava che la Cina intendesse soltanto fare un po’ di chiasso quando diceva che dei nove iniqui trattati che l’avevano costretta a rinunciare a parte del suo territorio tre le erano stati imposti dalla Russia. Nessuno riteneva che la Cina stesse scherzando quando attaccava la posizione sovietica in Mongolia, o quando dichiarava che metà dell’Asia centrale sovietica era sua di diritto». Allora la Cina di Mao mostrava agli ex “amici fraterni” dell’Unione Sovietica i suoi denti e i suoi muscoli (militari, politici e propagandistici), non potendo contare su un’adeguata forza dell’economia; oggi l’imperialismo cinese è capitalisticamente così forte, da permettersi il lusso di mostrarsi ai russi e al mondo intero con un bonario sorriso stampato sulla faccia (vedi il “simpatico” Xi Jinping): «La nostra economia non vuole dominare nessuna nazione. È dal libero commercio che germoglia la pace e l’armonia tra i popoli». Come no!
«La presenza umana lungo il lago di Bajkal si intensifica», scrive preoccupata la già citata Marina Forti; ma qui il problema non è affatto la presenza umana! Piuttosto si dovrebbe parlare di presenza disumana. Il problema è infatti la presenza del Capitale che «si intensifica» ovunque, con gli effetti devastanti sugli uomini e sulla natura che tutti possono vedere. Capire è tutto un altro discorso.
«”Levushka, te lo chiediamo a nome della Russia: vieni a salvare il lago Bajkal”. L’appello non esce dalle pagine di Dostoevskij e Levushka, che in russo sta per Leonardino, non è uno dei fratelli Karamazov ma Leonardo DiCaprio, che compare in un accorato post su Instagram vestito da zar. L’attore americano, che aveva raccontato di avere due bisnonni di origine russa, nei giorni scorsi ha visto il suo profilo social inondato di messaggi in cirillico. Il premio Oscar è da anni un attivista ambientale. A coloro che hanno a cuore la sorte del lago Bajkal è parso il testimonial adatto per sensibilizzare sulla sorte della maggiore riserva di acqua dolce del mondo (ghiacciai esclusi)» (Corriere della Sera). Dinanzi a Leonardo DiCaprio il mio anticapitalismo parolaio non può che arrossire e nascondersi da qualche parte. Dalle parti del Bajkal però no, patisco il freddo! Ma sì, Levushka, salva il Bajkal! Per una volta nella mia vita voglio dar credito al sano (?) realismo: che tempi!
*⇧ tratto da https://sebastianoisaia.wordpress.com/2020/10/01/bajkal-la-perla-della-siberia-minacciata-dal-capitale/
Note
- ⇧ «Ho Chi Minh era l’uomo delle contraddizioni e delle sorprese, talvolta programmatiche. Si è discusso a non finire se fosse prima di tutto un nazionalista o un comunista, ma la risposta è ovvia: era l’uno e l’altro. Fu nazionalista prima che comunista, ma divenne comunista perché i comunisti gli sembravano più impegnati a lottare per la libertà e l’indipendenza dell’Indocina» (H. E. Salisbury). L’ovvietà di Salisbury non mi convince per niente: a mio avviso Ho Chi Minh non fu mai un comunista, ma piuttosto un rivoluzionario nazionalista borghese (secondo una definizione storico-sociale, non sociologica) sostenuto da chi allora si proclamava ed era considerato quasi unanimemente “comunista”. Mutatis mutandis, la stessa cosa si può dire di Mao Tse-tung e della sua rivoluzione.
- ⇧ «Nei primi anni sessanta il governo dell’Unione Sovietica decise di prelevare, tramite l’uso di canali, l’acqua dei due fiumi che sfociavano nel lago nel tentativo di irrigare il deserto per coltivare riso, meloni, cereali, ed irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti. Ciò faceva parte del piano di coltura intensiva per il cotone voluto dal regime sovietico, che aveva il fine di far diventare la Russia una delle maggiori esportatrici. La costruzione dei canali d’irrigazione cominciò in larga scala negli anni quaranta. La maggior parte di essi è stata costruita in modo sbrigativo, permettendo all’acqua di filtrare o evaporare. Sin dal 1950 si poterono osservare i primi vistosi abbassamenti del livello delle acque del lago. Già nel 1952 alcuni rami della grande foce a delta dell’Amu Darya non avevano più abbastanza acqua per poter sfociare nel lago. Nel 1960 una quantità d’acqua stimabile tra i 20 ed i 60 km³ veniva deviata nell’entroterra. Dal 1961 al 1970 il livello del lago scese ad una media di 20 cm all’anno, e negli anni settanta la media triplicò arrivando a 50-60 cm all’anno, mentre negli anni ottanta la media era compresa fra gli 80 e i 90 cm annui. Il tasso di utilizzo d’acqua per scopi irrigui continuò a crescere: l’acqua deviata dai fiumi duplicò tra il 1960 e il 2000, così come la produzione di cotone. […] La progressiva scomparsa del lago non sorprese i sovietici, che avevano previsto l’evento all’inizio dei lavori e ritenevano che l’Aral, una volta ridotto ad una grande palude acquitrinosa, sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso. Già nel 1964 Aleksandr Asarin dell’istituto Hydroproject evidenziava il fatto che il lago era condannato, spiegando che “ciò fa parte dei piani quinquennali approvati dal Consiglio dei ministri e dal Politburo”. Nessun appartenente a un livello inferiore avrebbe osato contraddire questi piani, anche se così il destino del lago fu segnato. Il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo aveva come responsabile Grigory Voropaev che, durante una conferenza sui lavori dichiarò, a chi osservava che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste, che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto. Un ingegnere sovietico ha dichiarato nel 1968: “è evidente a tutti che l’evaporazione del lago d’Aral è inevitabile”» (Wikipedia). Il capitalismo con caratteristiche “sovietiche” è stato particolarmente ostile agli uomini e alla natura, superato in questo solo dal capitalismo con caratteristiche cinesi.