Pubblichiamo, col suo consenso e ringraziandolo, un testo del compagno Paolo Casciola.
Una cosa delle cose che da sempre mi hanno profondamente colpito è la rivendicazione del pensiero gramsciano effettuata da varie correnti politiche “di sinistra”: dall’area liberalsocialista fino al maoismo più becero e agli epigoni di Trotsky passando, ovviamente, per le due scuole – quella socialdemocratica e quella stalinista/togliattiana – che hanno influenzato in modo decisivo la storia del movimento operaio e una parte considerevole della stessa storiografia sul movimento operaio. A ben vedere, però, l’opera di Gramsci, in questa o quella fase della sua elaborazione, ben si presta a tali operazioni di appropriazione che, comunque, sono tutt’altro che esenti da forzature più o meno evidenti.
La principale tra queste forzature è lo scollamento parziale o totale – ma sempre e comunque selettivo, destinato cioè a servire, di volta in volta, questa o quella scuola di pensiero – che viene spesso messo in atto, dagli esponenti delle varie correnti cui ho accennato, tra l’elaborazione politica di Gramsci e il contesto storico-politico generale entro cui egli si muoveva. Di questo contesto generale fanno parte, e hanno una valenza cruciale, i rapporti allora esistenti tra il movimento operaio italiano e quello russo dopo la vittoria della rivoluzione d’Ottobre e, soprattutto, in seguito alla creazione dell’Internazionale Comunista, il Komintern. A mio avviso, spesso e volentieri questi rapporti non vengono tenuti nella giusta considerazione.
Eppure il Komintern e il Partito bolscevico, nella loro versione leninista, giocarono un ruolo decisivo sia nel periodo della gestazione che in quello della successiva creazione del Partito Comunista d’Italia al congresso di Livorno del gennaio 1921. E anche negli anni che seguirono, la reazione termidoriana nell’Unione Sovietica e il successivo consolidamento definitivo del regime staliniano nel 1928-29 ebbero un peso notevole sulla vita interna e sulle scelte politiche del PCd’I, tanto sotto la direzione del suo primo capo Amadeo Bordiga quanto nella lotta interna che, culminando al congresso di Lione del gennaio 1926, portò alla vittoria definitiva della frazione minoritaria gramsciana, alleatasi all’ala destra del partito guidata da Angelo Tasca e ai cosiddetti “terzini”, contro la sinistra bordighiana.
E proprio quella battaglia frazionistica interna, avviata da Gramsci nel corso del 1923, è sostanzialmente rimasta ai margini della ricerca storiografica, tanto che ancora oggi non disponiamo
di una raccolta completa e organica degli scritti gramsciani relativi al periodo che va dal 1923-24 fino all’arresto del novembre 1926. Per portare a termine una ricostruzione storico-politica esaustiva della storia del PCd’I e della biografia politica di Gramsci relative a quegli anni occorrerebbe, tra l’altro, un lavoro di scavo profondo soprattutto negli archivi della ex Unione Sovietica: lavoro che è stato intentato soltanto in anni recenti, ma limitatamente all’anno 1926. È comunque chiaro che Gramsci non operò in una sorta di atmosfera protetta ma condusse invece quella lotta, a livello politico e organizzativo, in stretta sintonia con le tendenze che, in seno al regime sovietico, detenevano una posizione dominante.
Del resto Gramsci non poteva ignorare i termini dello scontro che, dopo la morte di Lenin, aveva contrapposto il “centro” burocratico rappresentato dalla trojka formata da Stalin, Zinov’ev e Kamenev all’Opposizione di Sinistra guidata da Trotsky. E riesce francamente difficile supporre che un dirigente politico del calibro di Gramsci non fosse consapevole della posta in gioco in quello scontro e dei veri e propri mutamenti genetici che una vittoria della burocrazia montante avrebbe comportato a tutti i livelli del regime sovietico. Come non pensare, allora, che la sua posizione fosse frutto di una scelta deliberata di sostenere le tendenze vincenti in seno al Partito bolscevico, cioè la trojka e successivamente, dopo la crisi e la rottura definitiva della trojka stessa nel dicembre 1925, il blocco del “centro” staliniano con l’ala destra capeggiata da Bucharin?
Sta di fatto che, fino alla “svolta” ultrasinistra del Komintern staliniano attuata nel 1928-29 (culminata, per quanto riguarda il PCd’I, nel 1930 con l’espulsione di Tresso, Leonetti e Ravazzoli), Gramsci cercò sempre di attenersi alla “linea generale” dettata dalla dirigenza sovietica, con buona pace dei sostenitori di una presunta affinità di vedute tra un Gramsci e un Trotsky fraudolentemente accomunati nella lotta contro lo stalinismo. In realtà Gramsci non capì affatto la natura controrivoluzionaria del fenomeno staliniano nascente e le conseguenze negative che esso comportava per il movimento comunista mondiale. Anche nell’arcifamosa lettera al Comitato Centrale del partito russo dell’ottobre 1926, da molti addotta a prova di un suo presunto antistalinismo, egli dichiara invece di ritenere “fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza”, cioè del nuovo blocco costituito da Stalin con la destra buchariniana. E persino nelle riflessioni più mature affidate ai suoi Quaderni del carcere, Gramsci non risparmiò gli attacchi contro Trotsky, che di Stalin era il principale antagonista politico.
Il problema non è di poco conto, dal momento che il processo di burocratizzazione del Partito bolscevico e degli altri partiti comunisti culminò qualche anno dopo con la vittoria definitiva dello stalinismo, e questa vittoria fu poi decisiva per le sorti ulteriori del movimento operaio e per le sconfitte della rivoluzione in paesi come la Cina, la Germania, la Francia e la Spagna. Mi permetto di ricordare, di passata, che Stalin non solo ruppe con il marxismo su tutta una serie di punti programmatici cruciali, in primo luogo avanzando (nel dicembre 1924!) la sua teoria nazionalista che postulava la possibilità di costruire il socialismo in un paese solo, ma introdusse anche in seno al movimento operaio la pratica della liquidazione fisica sistematica dei militanti di partito che esprimevano posizioni critiche rispetto all’operato della direzione.
Per questo motivo, a chi pone un accento buonista su presunte matrici democratiche e/o libertarie di Gramsci, mi permetto di ricordare che Gramsci agì invece da cinghia di trasmissione dei diktat imposti al PCd’I da Mosca a partire dalla sua approvazione della decisione del III Esecutivo Allargato del Komintern (giugno 1923) di sostituire d’autorità la direzione di sinistra del PCd’I incarcerata in febbraio, nominando un nuovo Comitato Esecutivo composto essenzialmente da avversari politici di Bordiga. La liquidazione politica di quest’ultimo, che sarebbe culminata con la sua espulsione nel marzo 1930, si sviluppò di pari passo con la lotta orchestrata da Stalin e compagnia contro Trotsky in Unione Sovietica.
E dopo la battuta d’arresto segnata dalla conferenza di Como del maggio 1924 – allorché apparve chiaro che la tendenza “di centro” gramsciana era meno numerosa non soltanto della maggioranza bordighiana, ma anche della stessa ala destra del partito – Gramsci intensificò la sua lotta tendente alla formazione di un nuovo gruppo dirigente con l’appoggio del V Congresso Mondiale del Komintern (giugno-luglio 1924), che decise di escludere la sinistra italiana, le cui posizioni continuavano a essere maggioritarie nel corpo del partito, da qualsiasi posizione dirigente.
Come ho già accennato, le vicende interne del PCd’I sono strettamente intrecciate a quelle del partito russo, e molti sono i parallelismi che li legano. Tanto per fare un esempio, analogamente a quanto avvenuto in Unione Sovietica con la “leva Lenin” proclamata dalla trojka dopo la morte di Lenin – che tra il febbraio e il maggio 1924 aprì le porte del Partito bolscevico a circa 240mila nuovi membri senza i normali procedimenti di selezione politica, e che ebbe l’effetto di diluire il nucleo proletario rivoluzionario del partito in una massa popolare indiscriminata e spesso non adeguatamente politicizzata (comprendente un gran numero d’impiegati e di carrieristi), ma fedele all’apparato di cui Stalin rappresentava il vertice –, nei primi mesi del 1924 anche il PCd’I operò una manovra dello stesso tipo triplicando il numero dei suoi effettivi, con risultati del tutto simili.
Il V Congresso del Komintern si svolse all’insegna della parola d’ordine della “bolscevizzazione”. Varata sotto il segno della lotta contro il trotskismo, la “bolscevizzazione”, di cui Zinov’ev fu all’epoca il principale assertore, puntava innanzitutto a mettere i vari partiti comunisti nazionali al passo rispetto al partito russo. Sul piano organizzativo, a essi veniva richiesta una maggiore aderenza al modello ultracentralista-burocratico emerso in Unione Sovietica a partire dall’autunno 1923 con l’avvio della lotta contro Trotsky; e a livello politico si esigeva una maggiore rispondenza agli zig-zag della frazione dominante in seno all’apparato del Partito bolscevico e del Komintern. La tendenza gramsciana si fece promotrice della “bolscevizzazione” del PCd’I, coniugando l’opportunismo sul piano della politica (partecipazione all’Aventino, teorizzazione di un antiparlamento che restaurasse la democrazia borghese, ecc.) alle manovre organizzative miranti a emarginare e sconfiggere politicamente la sinistra del partito. Agli anni 1924-25 risalgono anche i tentativi gramsciani di “recuperare” Bordiga staccandolo dai compagni che gli erano più vicini e dall’ampia base d’appoggio di cui egli godeva in seno al PCd’I.
Quando poi, nell’aprile 1925, una serie di esponenti di primo piano della sinistra bordighiana formò il Comitato d’Intesa per meglio prepararsi allo scontro politico in vista del congresso di Lione, l’essenza organizzativa della “bolscevizzazione” messa in campo dalla tendenza gramsciana si manifestò con la stigmatizzazione del frazionismo e con le minacce, poi messe in pratica, di adottare provvedimenti disciplinari contro coloro che osavano mettere in questione il carattere monolitico del partito. Tutto ciò equivaleva di fatto alla proibizione della libera discussione in seno al partito (in una fase precongressuale, per giunta) e, più in generale, a una sospensione a tempo indeterminato della sua democrazia interna.
Nel giugno 1925 Gramsci aprì personalmente il fuoco contro gli oppositori sulle pagine de l’Unità, in cui si possono leggere perle di questo tipo: “l’iniziativa del Comitato d’Intesa porta in sé il germe della scissione del partito”; “è un atto delittuoso che merita le più gravi sanzioni e il biasimo più severo”; “i germi di infezione frazionistica (…) saranno inesorabilmente schiacciati ed eliminati”. Così, mentre il modello leninista del partito rivoluzionario prevedeva il diritto di costituire al suo interno delle frazioni allo scopo di sostenere posizioni diverse da quelle della maggioranza, nel partito “bolscevizzato” patrocinato da Gramsci anche il solo “porre il problema della organizzazione di una frazione significa porre un problema di scissione”. E, come ha evidenziato Paolo Spriano, per meglio combattere i presunti scissionisti, la tendenza gramsciana ordinò ai segretari interregionali di svolgere un’opera di vera e propria “polizia di partito”: gli oppositori dovevano essere “accuratamente perquisiti sulla persona e nell’abitazione” alla ricerca di “materiale frazionistico”.
La “bolscevizzazione” del PCd’I avviata da Gramsci fu – analogamente a quanto accadde nei partiti comunisti degli altri paesi – la prima tappa di un processo che avrebbe portato alla sua definitiva stalinizzazione. Il fatto che, per quanto riguarda il partito italiano, tale processo si sia concluso nel 1929-30, sotto la leadership di Togliatti e con Gramsci in carcere, nulla toglie alla parte di responsabilità politica di quest’ultimo.
Vorrei anche accennare al fatto che negli anni della prigionia Gramsci si dissociò dalla “svolta” del 1929-30 e dai suoi risvolti organizzativi. Ma lo fece da posizioni di destra, contestando la sterzata ultrasinistra e avventurista intrapresa dal Komintern stalinizzato a partire dal IX Plenum del febbraio 1928. Tant’è vero che nei mesi seguenti, diversamente dalle prese di posizioni ottimistiche di Togliatti e compagnia circa imminenti sviluppi rivoluzionari della situazione in Italia, egli prospettò invece per il partito, nell’ipotesi di un crollo del regime fascista, non la necessità di orientare la propria attività verso la conquista del potere, bensì quella di fungere, sulla base della parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, da catalizzatore e da avanguardia delle “forze sane” del paese, in un vasto fronte comprendente tutti i partiti (proletari, piccolo-borghesi e borghesi) che avevano lottato contro il fascismo.
La sua opposizione di destra allo stalinismo fu del resto temporanea, e durò fin tanto che il PCd’I, sempre piegandosi ai contorsionismi politici del Cremlino, non effettuò la “controsvolta” del 1934-35 con l’adozione della politica collaborazionista di classe dei Fronti Popolari, che legava il proletariato al carrozzone dei settori “antifascisti” e “progressisti” della propria borghesia, e che ebbe i suoi effetti più nefasti nel contesto della guerra civile spagnola. Quel cambiamento radicale di orientamento – di cui Gramsci era stato per certi versi un precursore, e di cui non poté poi constatare gli esiti negativi – determinò una sorta di ricucitura politica tra lo stesso Gramsci e il gruppo dirigente del PCd’I.
Secondo le testimonianze di cui disponiamo, infatti, Gramsci avrebbe appoggiato la politica dei Fronti Popolari, identificando un eventuale Fronte Popolare in Italia con l’Assemblea Costituente. Probabilmente egli non seppe mai che, all’interno del PCd’I, quella politica aveva assunto a partire dall’autunno 1935 la forma di reiterati appelli alla “base sana” del fascismo, raggiungendo il suo apice con il famigerato Appello ai fratelli in camicia nera dell’agosto 1936, che proclamava: “Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! I comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919 che è un programma di pace e di libertà!”…
Quando Gramsci morì nell’aprile 1937, vittima della reazione fascista, Pietro Tresso – che era stato uno dei membri dell’Ufficio Politico del PCd’I a essere colpiti dalle espulsioni del 1930 e uno dei fondatori del trotskismo italiano, e che sarebbe poi stato assassinato dalla “Mafia staliniana” (così egli amava definirla) in un campo partigiano francese nell’ottobre 1943 – scrisse un lungo necrologio in cui affermava, tra l’altro, che “Gramsci, malgrado le sue eminenti qualità, si è sbagliato anche lui, e su dei problemi importanti”. Questo mio intervento si pone precisamente l’obiettivo di contribuire all’individuazione e alla delucidazione di alcuni tra questi gravi errori di Gramsci.
Firenze, 1° ottobre 2008
*⇧ fonte → https://www.aptresso.org/files.spazioweb.it/aruba27963/file/paolo_casciola_anche_gramsci_sbagliava.pdf
**⇧ Quello che precede è il testo dell’intervento critico preparato da Paolo Casciola in occasione della presentazione, svoltasi presso la Sala Convegni di Villacidro (Cagliari), del n. 63 dei Quaderni Pietro Tresso (dicembre 2007, pp. 44, € 5,50), contenente due lavori di Giuseppe Andrea Manias: Antonio Gramsci e gli anarchici nel periodo de L’Ordine Nuovo, seguito da Camillo Berneri tra Antonio Gramsci e Carlo Rosselli. Alla relazione di Aldo Borghesi, presidente dell’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Antifascismo (ISSRA) di Sassari e autore dell’introduzione che precede i lavori di Manias, è seguito un vivace dibattito con l’autore, coordinato da Lorenzo Di Biase.
***⇧ Incipit in occasione della succitata presentazione: «Nella mia veste di studioso di storia del movimento operaio e di piccolissimo editore, sono doppiamente dispiaciuto di non poter essere con voi in questa serata di presentazione del lavoro di Giuseppe Manias, che io stesso ho pubblicato, serata alla quale cercherò comunque di apportare un contributo attraverso queste righe, che mi auguro possano offrire degli spunti interessanti al vostro dibattito.»