La prima evidenza è che l’andamento della crisi sanitaria non è stato deciso dalla razionalità imposta dalla scienza ma dalle borse. Dagli interessi contrastanti e (tutti) antitetici al necessario rigore, che un approccio che metteva in primo piano la salute della collettività e l’attenuazione del danno (e dei morti) imponeva. Che se di dittatura vogliamo parlare non ci siamo trovati di fronte a una “dittatura sanitaria” finalizzata a curarci a forza, in cui le “libertà personali” venivano sacrificate agli interessi complessivi della sopravvivenza della maggioranza, ma di una dittatura finalizzata a farci convivere col virus. A farci produrre, consumare e accettare passivamente di crepare.
L’approccio delle classi dominanti all’esplosione della crisi è stato, e non poteva essere diversamente, improntato al cinismo del capitalista il cui unico obiettivo è la valorizzazione del proprio capitale. La crisi è parte costitutiva dell’impalcatura economica che gestisce le nostre vite, non c’è modo di superarla. Da questo punto di vista la borghesia è negazionista non ritenendo il sistema che la mantiene in vita responsabile degli accidenti che produce.
Nella logica ferrea del capitale le crisi sono parentesi da superare nel più breve tempo possibile. L’obiettivo non è eliminarle definitivamente perché ciò sarebbe impossibile senza mettere in discussione l’intera struttura economica basata sull’unica molla che la tiene in piedi. Il profitto individuale.
Il capitale non può negare se stesso e non ha nulla da imparare di più di quanto la storia non gli abbia già insegnato. L’epidemia è un effetto collaterale del suo sviluppo. Un effetto collaterale col quale convivere, perfino da sfruttare facendo di necessità virtù. E gli effetti collaterali si subiscono (soprattutto quando a subirli sono gli altri), se ne esorcizza l’effetto disgregante che hanno sulle vittime, si prova a contenerli. Niente di più.
Chi pensava da impenitente riformatore dell’esistente che la pandemia sarebbe stata l’occasione per portare a più miti consigli le classi dominanti, magari per convincerle a dirottare parte dei loro profitti verso le necessità del “bene comune” sarà (è stato) come sempre spernacchiato. Sanità, scuola, trasporti e via discorrendo sono variabili sacrificabili quando la coperta diventa troppo corta per garantire i livelli di profitto “normali” prima che l’equilibrio, sempre precario, si rompesse. Le stesse polemichette, mascherate da battaglie ideologiche, sul Mes riescono a malapena a nascondere il fatto che investire 37miliardi nella sanità (compresa quella privata) è ritenuto dai mercati uno spreco. Una inutile perdita di denaro sottratta alle necessità di finanziare i settori produttivi del paese. Un lusso che verrebbe cassato anche se si chiamasse in un altro modo e non evocasse fantasmi antisovranisti.
Le crisi non rendono le classi dominanti più buone, semmai le rendono più cattive. E non rendono gli sfruttati più “forti”, ma più deboli e ricattabili.Pronti a vendersi per il piatto di lenticchie di un posto di lavoro conservato, di un posto letto garantito sia pure sotto una tenda, di un reddito di povertà assicurato.
Il capitale è vivo e lotta insieme a noi. Solo che lotta per i suoi interessi. Che questi interessi entrano in conflitto con le necessità (compresa quella di evitare di crepare anzitempo) della maggioranza della popolazione sottomessa alle sue leggi è una storia vecchia, intuibile perfino da chi non ha mai conosciuto Marx e si sia limitato a leggere la cronaca locale del suo sperduto paesino.
In questo quadro va considerato il ruolo della nomenclatura che interpreta le esigenze strategiche e immediate della classe al potere. Il ruolo della politica. Il ruolo dei partiti e dei loro rappresentanti costretti a far ingoiare una pillola sempre più amara e con scarse possibilità di poterla indorare. Ingrato compito visto che i primi a pagarne le conseguenze, in termini di perdita di consenso, sono proprio coloro che la politica la fanno, all’apparenza, da attori.
Non si è mai visto un padrone pendere da un lampione a testa in giù insieme al politico che fino al giorno prima lo aveva servito e riverito. Governare è un rischio troppo alto in tempi di vacche magre. E, paradossalmente, l’arma principale della democrazia, panacea di ogni malanno e risolutrice di ogni problema, l’andare a votare dando la parola al “popolo sovrano”, fa più paura della peste, non solo ai governanti ma anche agli oppositori.Non fosse mai che il popolo mandi a governare la Meloni e Salvini costringendoli a svestire anzitempo i panni di un sovranismo da straccioni e obbligandoli alla parte degli accattoni che, col cappello in mano, supplicano gli odiati cugini d’Oltralpe a salvarci dalla bancarotta.
La politica ha fatto quello, quindi, quello che poteva fare. Costretta a interpretare un ruolo a cui non era abituata e preparata.
L’illusione che l’epidemia fosse una “parentesi”, che sarebbe stata superata in breve tempo grazie al potere salvifico della scienza, è stata diffusa a piene mani. Ma la scienza al contrario della religione ha bisogno che i miracoli li faccia oggi e in fretta. Non bastano quelli fatti in passato. E di miracoli se ne vedono pochi mentre le nubi di una tempesta perfetta fatta di morti, ospedali che collassano, fabbriche che chiudono, si profila all’orizzonte.
Nella piccola enclave italiana, sezione distaccata del capitale mondiale, la politica ha dovuto fare i conti con un debito pubblico che non permetteva l’autonomia e la capacità di gestire l’emergenza con la stessa facilità di chi ha risorse vere o presunte. Ha dovuto fare i conti con un eccesso non più sostenibile di piccola e media borghesia, che rumorosamente premeva per non perdere le rendite di posizione ottenute. Con quel 20% della popolazione che da sola detiene il 70% della ricchezza del paese che, se smette di consumare, blocca l’intero sistema. Ha dovuto fare i conti con la base sociale che li mantiene al potere. Con l’esercito di chi vive ai margini del processo produttivo del paese grattando qua e la le briciole dei profitti che colano dalle tasche di chi la ricchezza la produce.
Si è inventata l’emerita minchiata che nessuno avrebbe pagato il prezzo della crisi sanitaria e di quella economica che già prima mordeva. Qualche piccola rinuncia pure risarcita. Piccoli sacrifici che sarebbero stati ripagati da fiumi di denaro alla ripresa della normalità. Ha provato a fare immaginare ai suoi elettori un “futuro radioso” per far dimenticare il “cammino tortuoso” che ci consegnerà a quel futuro.
Siamo al quinto “scostamento” di bilancio. Una montagna di debiti fatta solo per tamponare l’emergenza. Quando arriveranno gli “aiuti” serviranno a malapena a coprire le spese sostenute e a tamponare un debito pubblico ormai fuori controllo. Siamo dentro una economia “drogata” dagli acquisti massicci di “pagherò” della Bce. Senza i quali non avremmo potuto comprare nemmeno le siringhe e i batuffoli di cotone, garantire gli stipendi agli infermieri e pagare le pensioni.
In questo quadro che ormai è diventato la normalità visto che il virus non vuole decidersi a togliere il disturbo almeno per i prossimi due-tre anni, la politica italiana sconta pure la sua frammentazione e l’inadeguatezza dei personaggi che la rappresentano.
L’ultimo fenomeno di massa di una certa rilevanza sul terreno elettorale, il grullismo, non è in grado di amministrare nemmeno l’esistente dopo aver dimostrato di non essere stato capace di ribaltare alcunché. Conte è il suo capolinea. Il ragioniere evocato dal Giannini dell’Uomo Qualunque. Buono per tutte le stagioni. E perfetto, pure, come capro espiatorio dell’annunciata disordinata ritirata che come tutte le ritirate avrà bisogno di qualcuno da sacrificare alla rabbia di un popolo deluso e stanco. Grillo, che cretino non è, ha cercato di blindarlo nell’unico modo possibile. Coinvolgendo tutti. Realisticamente convinto che affogare ormai e ineluttabile cerca di portarsi dietro i suoi “nemici” di ieri che difficilmente ci cascheranno.
L’ideale sarebbe una soluzione alla Monti. La politica che si ritira a curarsi le ferite e un governo tecnico che fa il lavoro sporco in attesa che le condizioni possano permettere un ritorno alla normalità della dialettica democratica. Altre volte ha funzionato. Ma la posta in gioco è troppo alta e i sospetti fra le varie fazioni crescono al punto che nessuno è più pronto a giurare sulla correttezza del proprio vicino di scranno. In questo clima Renzi, il cui intuito politico gli ha permesso di ritornare a determinare l’agenda parlamentare e di fare e disfare governi dopo una batosta che avrebbe asfaltato chiunque, fa l’unica scelta razionale di un politico che vuole garantirsi un futuro. Ci toglie la faccia. Scappa dalla nave che affonda prima ancora che lo facciano i topolini con cui ha fino a ieri governato.
In questo momento è l’uomo più odiato d’Italia. Dalla sinistra che sa che l’unica possibilità di restare al governo è quella di rimanere aggrappata alla giacchetta di Conte e dalla destra che se ne sta così bene all’opposizione e che se andrebbe al governo sa bene che non potrebbe fare nulla di diverso da quello che stanno facendo gli attuali ministri.
Qualcosa mi dice che alla fine sarà lui, Renzi, ad avere ragione. L’unica via di salvezza per la nomenclatura politica quando la commedia borghese è alle ultime battute, è la fuga.
Tutto è perduto perfino l’onore, ma l’importante è salvare la vita.